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Animali da antologia

​Nel bestiario degli scrittori c’è posto per tutti: per la balena e per il coniglio, per la gallina e per la tigre. Per moltissimi cani, si capisce, e per tribù intere di gatti. Per il pavone maestoso e per il ripugnante scarafaggio. Asini e destrieri, api e lupi. Noè potrebbe essere benissimo descritto come un bibliotecario e non si farebbe torto a nessuno, né ai carpentieri che hanno costruito l’arca né agli autori che – dalle origini della letteratura fino a oggi – hanno fatto delle loro pagine un richiamo per ogni genere di creatura. Certo, il periodo d’oro dei bestiari rimane il Medioevo e, prima ancora, è la tradizione esopica ad attribuire sistematicamente intenzioni e sentimenti umani agli animali. Se vogliamo cominciare dal principio, però, non dobbiamo dimenticare che tra le opere attribuite a Omero si trova anche la Batracomiomachia, rivisitazione parodistica dell’Iliade dove a darsi battaglia sono non Greci e Troiani, ma rane e topi. Un divertimento che piacque molto anche a Giacomo Leopardi, autore a sua volta dei mordaci Paralipomeni della Batracomiomachia. Raccontare gli animali per raccontare l’umanità è una delle strade che poeti e romanzieri hanno percorso più spesso. L’altra, che si snoda parallela, porta invece a riconoscere l’assoluta alterità dell’animale rispetto all’uomo. Alterità non significa estraneità, ma distanza sì. Necessità di interpretazione, mistero che non si lascia risolvere al primo sguardo, tant’è vero che la stessa specie può presentarsi come benevola o minacciosa. Il polipo, per esempio, che in una bella fiaba di Mario Soldati si arrampica a suonare le campane per sventare un attacco dei pirati, ma che nel classico Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne (1870) assume le fattezze del kraken, leggendario mostro marino in agguato contro il sommergibile Nautilus.
Per capire che cosa vuol dire rappresentare gli animali come specchio dell’umanità si può partire dai Libri della giungla di Rudyard Kipling (1894-1895). La celebre versione a cartoni animati – che fu tra l’altro l’ultimo film a essere supervisionato direttamente da Walt Disney prima della morte – non rende del tutto giustizia alla complessità di una costruzione narrativa che affida al “cucciolo d’uomo” Mowgli il compito di confrontarsi con le diverse forme di organizzazione sociale adottate dagli animali: la democrazia guerriera che riunisce i lupi in branco, la capricciosa monarchia degli oranghi, il crudele individualismo della tigre e via elencando. Mezzo secolo più tardi, un autore dalle convinzioni politiche assai lontane da quelle di Kipling, e cioè George Orwell, farà qualcosa di simile nella Fattoria degli animali, riallacciandosi nello stesso tempo alla consuetudine della parodia per ridurre la rivoluzione sovietica a una faccenda da cortile, con il maiale Napoleone nel ruolo di uno Stalin ispido e grasso.

di Alessandro Zaccuri