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EDITORIALE

«La scoperta del Vero nella certezza dello spazio misurabile». Con queste parole Roberto Longhi parlava dell’arte di Giotto, e credo che sarebbe difficile dire meglio.
Da una parte il Vero di natura che la luce e l’ombra costruiscono e i colori definiscono e differenziano, il Vero che i paesaggi, le persone, gli animali offrono al nostro sguardo ma anche il Vero emotivo e psicologico, quello che appare nei volti degli uomini e delle donne a significare amore e odio, paura e speranza, stupore e meraviglia. Dall’altra lo spazio che ospita il Vero organizzandolo e dislocandolo in profondità secondo misure e proporzioni, all’interno di quella colorata scatola prospettica che è il Creato.

Dentro questi due poli – la scoperta del Vero e la certezza dello spazio – si colloca la rivoluzione di Giotto. È in forza di questa rivoluzione che egli guadagna il «grido» su Cimabue (Purgatorio XI, 91-92) e la giovane lingua figurativa degli italiani sterza dal «greco al latino» diventando occidentale, romanza e quindi “moderna”, come Cennino Cennini aveva bene inteso. Il mondo «delle attitudini e degli affetti», come scriveva Giorgio Vasari, diventa, con Giotto, protagonista della pittura e carattere eminente dello stile.
Fermiamoci di fronte alla Natività ad affresco nella padovana cappella degli Scrovegni, dipinta fra il 1302 e il 1305 pochi anni prima che Dante scrivesse, nell’undecimo del Purgatorio, il celebre elogio dell’artista coetaneo e concittadino. Lo spazio, prima di tutto.

Quella di Giotto non è ancora la prospettiva scientifica di Brunelleschi ma è già profondità, solidità, abitabilità. La Madonna che ha appena partorito e che adagia il figlio nella mangiatoia secondo il racconto dell’Evangelista (Lc 2,7) è coperta da una tettoia di legno dislocata in profondità. I pastori che si accostano al Presepio, il san Giuseppe dormiente, gli angeli in volo che cantano la gloria dell’Atteso, sono figure reali che occupano concretamente lo spazio, esattamente definite dall’ombra e dalla luce. Protagonista è il mondo delle emozioni e dei sentimenti. Il volto della Madonna in atto di deporre il neonato nella culla esprime felicità, tenerezza, apprensione. Il Bambino, stretto nelle fasce, fissa la madre in una specie di muto affettuoso colloquio. Anche il bue alza lo sguardo verso l’alto per non perdersi la scena, mentre l’asino gira la testa in una buffa torsione e orienta le orecchie quasi a voler meglio ascoltare le coccole della mamma con la sua creatura.
Lasciamo il ciclo padovano – non senza aver dato un ultimo sguardo al murale con la Cattura di Cristo dove il bacio di Giuda tocca una intensità emotiva tale che si può ben capire perché quell’episodio sia diventato figura esemplare e quasi proverbiale del tradimento – e fermiamoci di fronte alle storie di san Francesco in Assisi, dipinte forse dieci anni prima.
È il racconto più straordinario di pensieri e di emozioni quale mai era apparso prima sotto il cielo d’Italia. Ecco la rabbia di Pietro di Bernardone quando Francesco si spoglia degli abiti, l’imbarazzo del vescovo che cerca di coprirne le nudità, lo stupore del popolo che, interdetto, assiste alla scena. Ecco la perplessità sul volto di papa Onorio quando Francesco presenta e illustra la regola, ecco lo sgomento dei sacerdoti musulmani di fronte al miracolo del fuoco, in presenza del sultano al-Malik al-Kamil.
 
I demoni che, cacciati dal santo, lasciano Arezzo, policroma città di mura, di torri e di palazzi rampicanti in iperbolica prospettiva, hanno le fisionomie mostruose e grottesche dei diavoli che, fra qualche anno, Dante incontrerà in Malebolge. Ma il crocifisso di Santa Maria Novella, databile alla metà dell’ultimo decennio del Duecento, è, per la prima volta nella storia dell’arte, un uomo vero che porta su di sé il dolore di tutti gli uomini e patisce, come un uomo, la morte in croce.
 
di Antonio Paolucci