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Rispecchiarsi in un affresco

​Maria Gloria Riva


Piero della Francesca era il mio artista preferito al liceo. Non mi stancavo mai di guardarlo per quella modernità anticipata, per l’austerità dei volti, per quella dimensione del Mistero divino, così totalmente altro eppure carnale.
La Resurrezione era tra le opere che più amavo. Ed è proprio su di lei che misuro il variare della mia posizione circa la fede e soprattutto lui, il Cristo. Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede. Eppure quanto è difficile misurarsi con il Mistero del Risorto! Più facile la croce: certamente la rifuggiamo ma nello stesso tempo la possiamo capire, è, direttamente o indirettamente, pane quotidiano per ciascuno di noi.
Piero ebbe subito la capacità di restituirmi un Cristo carnale, con la fierezza del guerriero e il fisico del contadino.
Nella mia adolescenza mi identificavo volentieri con i soldati. Il primo a destra dorme tra la lancia e lo scudo, le armi si trasformano in luogo dell’incoscienza. Davanti a lui un soldato è così abbandonato al sonno che cade all’indietro in prossimità di una pietra. La roccia, nella Scrittura, è Dio stesso: se non ci decidiamo a fare i conti con Lui e con il nostro destino presto o tardi cadremo così, all’indietro, in balia del nostro stesso peso. Sì, mi ci rivedevo: i legami con la tradizione ricevuta cadevano sotto i colpi della propaganda sessantottina. Era necessario un cambiamento, proprio come la significanza del colore viola indossato dal soldato.
Il cambiamento venne con un incidente stradale che aprì, anzi socchiuse la porta alla morte. A ventun anni non capita tutti i giorni di trovarsi coinvolti in un incidente mortale. Caddi anche io a peso morto dentro il buio, nel rumore assordante di lamiere contorte. E fu come vedere a occhi chiusi, come lo stropicciarsi gli occhi del soldato incredulo. Fu un risveglio. Dio vive, io l’ho incontrato: il grido di André Frossard divenne mio, quando dentro il buio della morte si aprì un varco, la luce flebile della Presenza.
Nei lunghi giorni di ospedale che seguirono la ripresa, m’imbattei di nuovo nella Resurrezione di Piero. Allora fui colpita da quello che pare essere il ritratto dell’artista. Quel soldato di sinistra rivolto verso di noi, vestito di terra. Mi accorsi che proprio costui segnava il confine fra il paesaggio autunnale con i due alberi spogli e il paesaggio in piena fioritura dall’altro lato. Un confine tra la distanza voluta verso il Mistero, e la certezza della vita in fermento, della rinascita. Il volto di quel soldato, l’unico riconoscibile, esprime la presa di coscienza di un sé.
La coscienza di me, piena e fruttuosa, è maturata entro quattro mura. C’è un castello tra gli alberi frondosi, come la meta della mia ricerca: il monastero. Qui dove tutto ha un rapporto con l’eterno, misurarsi con il destino ultimo è esercizio quotidiano. Qui ho cominciato a comprendere e a guardare lungamente il Cristo di Piero: il suo piede poggiato solidamente al sepolcro, come un cacciatore sulla preda sconfitta. La mano che raccoglie il panneggio mostrando le piaghe del suo dolore, in contrasto con la luce della sua carne di Risorto. La ferita del costato fissata nel tempo e il vessillo. A differenza del soldato posto di fronte allo spettatore ma con gli occhi chiusi, il Cristo ti guarda, cerca te. Ed è questo essere cercata ogni giorno da un’eternità che preme a impedire di vivere nella mediocrità, nell’accomodamento delle cose, e ad andare sempre più radicalmente al fondo della propria umanità, dei rapporti con gli altri, degli impegni presi, come se fossero eterni.
Il monastero ti regala un tempo altro, un tempo eterno e perciò stesso presente alla realtà. Non avulso dagli affanni quotidiani, ma così dentro da viverli come Cristo in croce, nella vittoria già piena della vita sulla morte, della gioia sul dolore, dell’eternità sulla temporalità.
Vivete come vivi tornati dai morti, disse un giorno Paolo ai cristiani del suo tempo. Per me sono parole attuali: questo mondo è affascinante alla luce di un’eternità che attende la sua trasfigurazione. Ma diventa tragico e difficile se lo consegniamo al mero orizzonte delle prospettive umane.