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Quell'intreccio nel segno dell'Invisibile

​Sergio Givone
Cosa lega fede e bellezza, nonostante l’una e l’altra appartengano a due mondi tanto diversi? La fede non ha bisogno della bellezza. Debole e vuota sarebbe quella fede che cercasse conferma nella bellezza. A sua volta la bellezza non è per fede, ma è perché è. Non è certo la fede a convincerci che una cosa bella è davvero bella. Eppure nei luoghi della fede, autentica fede, è come se la bellezza irradiasse spontaneamente. Da dove la perfetta bellezza di un’antica pieve romanica, o di un convento quattrocentesco, o quella che risplende in un volto illuminato dalla grazia, se non dalla fede? Viceversa, dove c’è bellezza, autentica bellezza, c’è anche la fede, o è più facile che ci sia, almeno nel senso che dove c’è bellezza siamo portati ad accogliere il messaggio che sembra venire dal suo incanto e dalla sua prodigiosa capacità di attrazione, e quindi siamo indotti ad aver fiducia, se non addirittura a credere.
Devono essere tenute separate, fede e bellezza, per evitare una confusione che potrebbe essere equivoca e disastrosa. Ma se non abbiamo occhi per vedere come la bellezza sia intrinseca alla fede, e come la fede appartenga alla bellezza, forse qualcosa di essenziale ci sfuggirà per sempre.
Ripartiamo allora dalla celebre definizione dantesca che si trova nel XXIV del Paradiso e che Dante prende e traduce pari pari da san Tommaso, il quale a sua volta l’aveva ricavata dalla Lettera agli Ebrei di san Paolo. «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi», dicono Dante – Tommaso – Paolo. A una sola voce quei tre grandi ribadiscono dunque che la fede ha a che fare con ciò che è di là da venire, con l’inattuale e con l’invisibile, cioè con il contrario di ciò con cui ha a che fare la bellezza. Ma le loro parole non contraddicono, bensì suggeriscono l’idea che fede e bellezza siano misteriosamente intrecciate.
È proprio della bellezza di mostrarsi, di esserci, e di piacere. Quando c’è, c’è. Noi possiamo soltanto riconoscerla (o rifiutarla). Come diceva lo stesso san Tommaso: pulchrum est quod visum placet, è bello ciò che, visto, piace. La fede invece guarda alle cose “non parventi”. Sarebbe però affrettato, e sviante, trarne la conclusione che la bellezza è per la fede solo un inutile orpello e la fede per la bellezza un di più del tutto superfluo.
Benché la fede sia rivolta all’invisibile (mentre la bellezza proviene dal visibile), tuttavia la fede non si limita a farvi cenno come a qualcosa che non possiamo né conoscere né tantomeno sperimentare. La fede è precisamente questo sapere, questa possibilità di vivere in comunione con il trascendente, questa capacità di far presente l’assente. Perciò Dante, san Tommaso e san Paolo affermano che la fede riempie di contenuto sostanziale quello che altrimenti sarebbe un guscio vuoto, ed è conoscenza vera, è conoscenza che fa ipotesi non menzognere (questo significa “argomento”). La fede mette la realtà nella sua giusta luce, proprio come la bellezza. C’è bellezza nella fede.
A sua volta la bellezza non può prescindere dalla fede. È come se nell’esperienza della bellezza la fede rendesse quell’esperienza più piena e più genuina. Il fatto è che la bellezza si offre a noi chiedendoci adesione e consenso. Dire che una cosa è bella è come dire: sì, questa cosa è come deve essere, è giusto che sia, è bene che sia! Naturalmente non lo possiamo dimostrare. Anzi, possiamo ingannarci, addirittura possiamo lasciarci sedurre. Proprio perché la bellezza è in rapporto con la verità, la bellezza è anche ingannevole e seducente. Se non fosse in rapporto con la verità, o se non supponessimo che lo sia, come potremmo lasciarci ingannare? Ma allora, quando la bellezza ci interpella e ci chiede di essere riconosciuta, noi abbiamo bisogno di abbandonarci fiduciosamente a essa, di credere in essa, di aver fede in essa. E cioè: credere che le cose siano veramente quel che sembrano, credere che l’apparenza sia rivelazione di verità, credere che il visibile sia tramite dell’invisibile. Nella bellezza tutto appare come se essere e dover essere coincidessero. Che questo dover essere sia non soltanto auspicabile, ma sia in realtà, è un atto di fede.