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Oltre la pandemia, la vera rivoluzione è il bene comune

​Sergio Givone


Mai come di questi tempi – tempi paurosi di peste – la corrispondenza fra le parole e le cose è apparsa tanto evidente, come se l’accadere fosse già inscritto nei concetti che usiamo per spiegarli. Un’infezione virale si diffonde in tutto il mondo e diventa pandemia. A memoria d’uomo mai una pandemia era stata veramente tale: un’ombra che copre l’intero pianeta.
Eppure non è la prima volta. Le pestilenze che hanno accompagnato la nostra storia (e che spesso hanno prodotto cambiamenti radicali, come la peste di Giustiniano nel VI secolo, che inaugurò il Medioevo, o la peste nera del Trecento, che lo chiuse) sono state molto diverse, per tipologia e fenomenologia, eppure identiche, rispetto al loro “paradigma” comune: sono malattie contagiose, che ci trasmettiamo gli uni agli altri e che fanno di ciascuno di noi, senza volerlo, un colpevole e una vittima. Proprio su questo ho invitato a riflettere in un mio libro del 2012, Metafisica della peste (Einaudi). L’emergenza dimostra che tutto ruota intorno al principio di responsabilità, che poi vuol dire principio di solidarietà: solo prendendomi cura dell’altro, io posso salvare me stesso. Siamo sulla stessa barca, e dobbiamo capire che ci si salva o si affonda insieme.
Un po’ come essere in guerra, si dice. C’è però una differenza. In guerra ci si può arrendere e appellare al senso di umanità del nemico, che è pur sempre un nostro simile. In caso di peste questo non è possibile: arrendersi alla peste significa morire. Perciò vivere in tempo di pandemia è perfino peggio che vivere in tempo di guerra, per quanto la guerra sia più atroce di qualsiasi pestilenza. La guerra, ogni guerra, porta con sé un vizio d’origine che la rende ingiustificabile: la disumanizzazione del nemico. Il nemico in realtà è uno di noi, e partecipa della nostra stessa umanità. Ma in quanto nemico viene degradato a non-uomo, cioè uno che per il solo fatto di trovarsi dall’altra parte viene considerato meritevole di annientamento. Questo fa della guerra, ogni guerra, un crimine contro l’umanità. Il che non può dirsi della peste, perché questa semmai è un segno della nostra fragilità e vulnerabilità. Crimine contro l’umanità è sempre e soltanto quello che l’umanità compie contro se stessa.
Opposto e speculare rispetto al crimine che l’umanità compie contro se stessa è il riconoscimento che ogni uomo è uomo come tutti gli altri, e tutti appartengono alla stessa famiglia umana, tutti sono fratelli. Così come il principio di responsabilità è tutt’uno con il principio di solidarietà, allo stesso modo il principio di solidarietà è tutt’uno con il principio di fraternità. Infatti il principio di responsabilità suona così: tu devi rispondere di tutto a tutti. Di tutto, perché tutto in un modo o nell’altro ti riguarda. E a tutti, perché tutti hanno la stessa origine, sono figli dello stesso Padre. Niente come la peste ci mette di fronte a un principio che è il solo in forza del quale possiamo salvarci. Proprio la peste ce ne offre la controprova. Quando scoppia, sempre e di nuovo, ieri come oggi, cerchiamo salvezza dove in realtà non possiamo trovarla: nel cosiddetto stato di eccezione, per cui deponiamo le nostre libertà ai piedi di un legislatore che di fatto ce ne priva; o all’opposto nella cosiddetta immunità di gregge, che sarebbe il risultato auspicabile di un provvidenziale lasciar fare alla natura. Questi modelli non possono funzionare, perché la dittatura induce alla trasgressione, l’anarchia invece porta alla catastrofe. Solo l’assunzione di responsabilità ci salva, e cioè solo l’adozione di norme comportamentali che, benché dettate da altri, siano rispettate come se ciascuno le desse a se stesso. Questa, e non altra, deve essere la lezione della peste.
Il sogno di tutti è di tornare il più presto possibile a vivere come prima, a fare quello che facevamo prima. Ma, se così fosse, il sogno si trasformerebbe in un incubo, anche perché la peste altro non è che un incubo che si credeva un sogno. L’attuale pandemia dimostra chiaramente d’essere il prodotto di stili di vita (inquinamento industriale, surriscaldamento, antropizzazione...) che non possiamo permetterci, pena la nostra autodistruzione. La speranza è che la peste ci insegni a mettere il bene comune (e quindi la solidarietà e la responsabilità individuale) al posto dei troppi beni che si sono rivelati tutt’altro che beni. Sarebbe, questa sí, una rivoluzione.