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Ogni pagina è una vita

​Eraldo Affinati
Aogni partenza, è come se chiamassi in causa gli scrittori della mia vita. Qualche anno fa con Peregrin d’amore mi lanciai in un’impresa a dir poco pazza, se non proprio disperata: raccontare la storia della nostra letteratura, da san Francesco a Pier Paolo Pasolini, andando nei suoi territori, reali e fantastici. Ricordo ancora l’ascesa del monte Ventoso sulla scia petrarchesca; i vagabondaggi manzoniani nella boscaglia dove Renzo si mise in fuga; lo sguardo ansioso che riservai all’ultima dimora leopardiana a Capodimonte; persino il respiro strozzato che mi colse nelle contrade romagnole quando decisi, in omaggio a Giovanni Pascoli, di ripercorrere il cammino della cavallina storna.
A Ketchum, nell’Idaho, davanti al giardinetto che ospita la tomba di Ernest Hemingway, ebbi l’impressione di tirare qualche colpo di boxe con Nick, l’adolescente al centro dei Quarantanove racconti sul quale si è depositata una parte non trascurabile della mia adolescenza. A Cuernavaca, in Messico, nell’albergo dove Malcolm Lowry ambientò Sotto il vulcano, mi sembrò di parlare col suo fantasma; la stessa cosa mi accadde di fronte all’ospedale Bellevue di New York dove lui venne ricoverato e ambientò Caustico lunare. E poi, come dimenticare il campo di Borodino, in Russia, negli avvallamenti d’erba trasformati in museo all’aperto, dove rivissi lo scontro napoleonico che Tolstoj rievocò in Guerra e pace?
Troppa memoria. Devo scegliere. E non è facile. Se mi limitassi semplicemente a fare l’appello degli scrittori italiani del Novecento, almeno quelli che per me sono stati decisivi, mi ritroverei sotto gli occhi una specie di elenco di clamoroso anacronismo lirico. Alvaro Corrado nell’Aspromonte arido e desolato. Bassani Giorgio, chiuso dentro le mura di Ferrara che al tramonto prendono la luce del corallo. Boine Giovanni: indelebile resta la quinta scenografica di Porto Maurizio come appare nel Peccato, una meraviglia di luci e muretti, orti e cactus, sentieri in fuga come serpi dal mare verso l’entroterra, insomma la scena che diventerà, undici anni dopo, il campo operativo di Eugenio Montale. Cassola Carlo, col silenzio quasi materico nel bosco maremmano dove ambientò forse il suo racconto più bello.
Comisso Giovanni: impossibile stargli dietro mentre corre verso l’impresa di Fiume insieme all’amico di una vita, Guido Keller, in un’esplosione magmatica di giovinezza. D’Annunzio Gabriele che per me resta legato a Venezia, la mano che impugna la penna sui cartigli del Notturno preparati per lui, quasi cieco, dalla figlia Renata. Fenoglio Beppe, supremo con il Bren sulle spalle e il fazzoletto azzurro annodato intorno al collo nella rievocazione epica sulle creste fangose delle Langhe.
Gadda Carlo Emilio, diviso e lacerato fra via Merulana a Roma, dove sin da bambino camminavo, e Milano, nella cognizione di un dolore antico, esacerbato negli anni, che solo lo stile poteva lenire. Gozzano Guido, da ritrovare nel Canavese della cucina dove la Signorina Felicita tosta il caffè. Jahier Piero, a passo cadenzato davanti ai suoi alpini fra le montagne in cui è stata fatta l’Italia. Jovine Francesco sullo sfondo di un paesaggio aspro e tetro nelle Terre del Sacramento che nascondono lo spirito più autentico del Molise.
Levi Primo, inciso per sempre nel lager di Auschwitz che raggiunsi a piedi da Venezia nel 1995 anche sulla scia di mia madre, fuggita dal treno della deportazione. Lussu Emilio, di cui sempre mi parlava Mario Rigoni Stern quando m’inoltravo insieme a lui nei boschi dell’altopiano dei Sette Comuni sotto l’egida di Luigi Meneghello, altro scrittore segnato dai medesimi ambienti. Patti Ercole, i cui racconti una volta definii “lune del Verga” proprio pensando alla Sicilia metafisica il cui ricordo sollecitavano. Pratolini Vasco che conobbi personalmente a Roma nell’ultima fase della sua vita, col sigaro di Metello e il cuore a San Frediano; il Carso di Slataper Scipio; i poderi di Tozzi Federico…
Quando viaggio tutti rispondono: presente!