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Nell'arte sublime del Sanzio c'è la luce del paradiso

​Massimo Lippi


«Qui è quel Raffaello da cui, fin che visse, Madre Natura temette di essere superata e quando morì temette di morire con lui». Pietro Bembo scrive così sulla tomba di Raffaello al Pantheon. Nessun artista mai, ancorché grande e geniale, ebbe un epitaffio così alto e sconvolgente, mai fu vergata una così tremenda sentenza tanto da chiamare in causa la creazione stessa, che avrebbe temuto di morire per sempre con lui.
Quant’è magnifica e sublime, commovente, la sete di bellezza, di immortalità e di gloria di cui ha bisogno l’uomo, tutti gli uomini, perché creati a somiglianza di Dio: Sommo ed Eterno fulgore di Bellezza e di Verità a cui solo spetta la Gloria. Se un artista di incomparabile grandezza come Raffaello muore a 37 anni, dopo aver spinto la sua brevissima stagione e la sua arte oltre le più vertiginose conquiste del suo spirito in una perfetta unione col suo ideale, è sì paragonabile a un figlio eccelso di madre Natura che potrebbe davvero morire con lui. Il Bembo esagera ma solo per farci capire. Allora è proprio questo timore che fa piangere il creato ed esaltare la grandezza incomparabile, non solo di Raffaello Sanzio da Urbino ma di una creatura che, piagata, stende la mano ai margini di una strada. La dignità dell’uomo è tale perché è speculare alla dignità di Dio che lo fa degno di vivere e morire e gli dona una messe di talenti che non sono da rinchiudere nello stanzino segreto dell’egoismo ma devono essere profusi e trafficati a piene mani nei secoli e nella storia di ogni giorno.
È il caso di Raffaello, ma anche di ciascun uomo di buona volontà che ha la medesima indole di questo spettacolare genio. Questa è la vera grandezza che Dio ci offre con l’arte, con la poesia, con la musica, con la bellezza del creato. Niente e nessuno è mai del tutto orfano di questa provvidenziale luce che spalanca le tenebre e getta un ponte di gloria sull’abisso. Questo è il compito precipuo dell’arte, perciò chi ne vorrebbe fare un linguaggio banale o, come si dice, autoreferenziale, ristretto agli specialisti, viene a snaturare la missione stessa di questo speciale linguaggio.
Venerato in vita Raffaello non ha mai cessato di avere devoti ammiratori e seguaci commossi ed epigoni a vario titolo che ne rafforzano nei secoli il mito e la fama. Ma perché? La risposta è tutta in quel suo detto: «Per dipingere una bella [donna] mi occorrono più belle». Come a dire che il disegno e la pittura catturano e selezionano, dalla più vasta gamma della realtà, quelle forme belle e perfette che riunite in una fioritura di traboccante bellezza, danno scacco alla natura e alla vita stessa. È un progetto e un’ambizione folle che solo un genio può architettare.
Dunque, siamo punto e a capo. L’arte è illusione e meraviglia, facoltà divina, è potenza che trapassa la notte e si attesta nello splendore del Giorno del Risorto. È levità e Grazia. Raffaello ha intravisto il Creatore all’opera mentre modellava e dipingeva l’uomo nella sua luminosa e tragica carne. L’artista con la sua esaltante visione ha raccolto gli arnesi di quel grande e inimitabile evento e ha condensato quel briciolo di luce paradisiaca nella sua opera. Dio ha effuso nell’anima di Raffaello e in quella di ogni uomo, in gradi diversi, quel brivido di inestinguibile amore.
Il capolavoro assoluto di Raffaello è per me la Liberazione di san Pietro, nelle Stanze Vaticane. La nera grata in ferro messa in controluce e di contrasto l’Angelo, che irrora di Luce divina sulla tristezza del mondo, ora spande e conforta e libera chi a Lui si affida. Ancora dormono i dormienti soldati, messi lì a segregare la Vita che mai s’arresta.
Raffaello rese l’anima a Dio il Venerdì Santo, il 6 aprile 1520. Aveva appena finito di dipingere un altro capolavoro, la Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor. Dal carcere della terra alla gloria del Cielo, passando per un trionfo silente grandioso del talento umano che fruttifica sospinto da un vento che soffia dove vuole. Qui occorre citare Leonardo da Vinci, il quale diceva: «Una vita spesa bene lunga è».