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Luci del Medioevo bellezza e grazia più forti del peccato

​Non lo dimenticherò mai. Nell’ottobre del 1960 mi ero appena iscritto all’Università, a Firenze: qualcuno mi disse che a Todi si sarebbe di lì a poco tenuta una “Settimana di studi” di un appena fondato “Centro di Spiritualità medievale”. M’iscrissi e ci andai con i pochi soldi che avevo faticosamente risparmiato facendo qualche lavoretto estivo. Risultò ch’ero uno dei più giovani fra gli intervenuti. Non osavo parlare, dinanzi a me c’era tutto il Gotha della medievistica di allora: da Raffaello Morghen a un ancor giovane Raoul Manselli a un appena trentenne, elettrico Ovidio Capitani.
È ancor vivida nella mia memoria la frase con la quale il grande Eugenio Garin, che sarebbe poi stato per quattro anni il “mio” professore di filosofia, aprì la sua relazione, nella sala dello splendido Palazzo del Popolo tudertino. «Siamo venuti a cercare la Luce del Medioevo». Disse proprio così: e si capiva che ci metteva le maiuscole. Per me, fu una rivelazione: uno squarcio di sole nella mente, le parole che da mesi, da anni forse andavo cercando nelle mie incerte scorribande giovanili per un Medioevo fantastico popolato dei romanzi di Walter Scott.
Già: il “Buio Medioevo”. Le invasioni barbariche, l’ignoranza, la superstizione, i macelli delle crociate, le crudeltà inquisitoriali, i roghi delle streghe. Su noi ragazzini degli anni Cinquanta un po’ dappertutto, dai cattivi film ai cattivi libri ai cattivi giornali a una (purtroppo) scuola troppo spesso conformistica, si era per anni riversata la propaganda generata dal peggio del livore e del pregiudizio illuministici. Eravamo vittime della volgarizzazione dei più distorti dei luoghi comuni usciti dalle penne dei Diderot, dei D’Alembert, dei Voltaire. Ma quel piccolo, smagrito professore di filosofia tutto testa e occhiali ci apriva ora, inaspettatamente, gli occhi: e spalancava dinanzi a noi un ben diverso scenario. La gloria delle cattedrali gotiche e la profondità del pensiero scolastico con le sue università, la gioia della poesia cortese d’amore e l’eroismo dell’epica, l’oro e le spezie dei mercanti che solcavano il Mediterraneo e che portavano da noi in Occidente i broccati di Persia e le sete del Catai, i versi abbaglianti di Francesco d’Assisi (“Laudato si’, mi Signore…”) e l’eterna poesia di Dante, la saggezza di Federico II e la santità di Luigi IX…
Non era, certo, tutto e soltanto luce. È nota, in pieno XII secolo, la polemica tra Sigieri, abate di Saint-Denis – per il quale le chiese dovevano essere una sinfonia di colori e di materiali preziosi, un cantico di luce alla gloria di Dio prorompente dalle altissime vetrate – e Bernardo, abate di Clairvaux, sostenitore anche lui del trionfo della luce: ma purissima, che da quelle vetrate prive di colori doveva inondare l’interno dei sacri edifici spogli d’oro e di gemme, puri anch’essi a somiglianza di Maria, rimasta Vergine prima, durante e dopo il parto del Salvatore. Due modi opposti d’intendere luce e colore, entrambi connessi con le ricerche d’ottica portate dai musulmani dall’India e dalla Persia in Spagna, e poi pervenute alla scienza scolastica.
C’erano anche le ombre. Prendiamo quelle del Trecento, il “secolo della crisi”: un netto peggioramento climatico già dal primo quarto di esso, con annate agrarie sfavorevoli e quindi il corteo tragico della catena di carestie, denutrizione, decessi anticipati e mortalità infantile, regressione demografica, spopolamento di città e campagne, ristagno dei commerci, impoverimento generale, crisi politiche seguite a quelle economiche. La Fame, la Peste, la Guerra, la Morte: i quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Non a caso è il Trecento il secolo dell’avvio della “caccia alle streghe” e dei due fenomeni letterari e iconici che sono la chiave della paura serpeggiante: la Danza macabra, con i suoi scheletri che sfidano irridenti il terrore dei vivi, e il Trionfo della Morte signora del mondo e di tutte le sue cose.
Eppure, anche da quel secolo cupo e oscuro scaturì un fiume di colore. I ricchi mercanti toscani, liguri, lombardi, catalani, borgognoni, fiamminghi e anseatici avevano fondato le loro strabilianti fortune non solo sul loro coraggio di viaggiatori, ma anche sull’usura, protagonista delle loro attività creditizie e vietata dalla Chiesa. Erano uomini duri e senza scrupoli, ma anche saldi e sinceri credenti, che con lucida disperazione vedevano avvicinarsi, con la malattia o la vecchiaia, l’ora del trapasso e della condanna. Pentirsi, certo: ma la paura dell’inferno era insufficiente a redimerli. E di autentica contrizione essi, nella loro incallita viziosità, si sentivano incapaci. Restava però una grande risorsa: la generosa carità, le elemosine pro rimedio animae. In quel mondo le occasioni per alleviare le sofferenze dei troppi poveri non mancavano. E allora avanti, con la fondazione di chiese e di ospizi per i poveri e per gli ammalati, per gli orfani e per i bambini abbandonati, per quanti le guerre avevano storpiato e resi inabili al lavoro.
I pittori di quel grande secolo, che per la loro arte si giovavano dei colori tratti dai più costosi e raffinati prodotti provenienti dal Levante e dall’Asia profonda, erano strettamente legati ai mercanti che con i loro tessuti, per la tintura dei quali si erano usati quegli stessi prodotti, si erano costruiti immense fortune. E ora i mercanti si facevano committenti di grandi programmi iconici per le loro cappelle gentilizie, per le quali i pittori profondevano il meglio della loro abilità. La padovana cappella degli Scrovegni, quelle di Santa Croce a Firenze, quelle delle cattedrali di Pisa, di Siena, di Padova o del Sacro Convento di Assisi, sono tutte frutto del peccato, del pentimento e della paura di gente che aveva vissuto nel peccato e che, attraverso la bellezza, supplicava il perdono del Signore.
Pensate alla gloria di quelle pareti, di quelle absidi, di quei cieli dipinti: e confrontateli mentalmente con l’austero vuoto scialbato a calce delle chiese calviniste dell’Olanda di due-tre secoli dopo, che parlano della rigorosa virtù di mercanti che non si sognavano nemmeno di commuovere Dio con l’oro dei nimbi della Vergine, con l’azzurro oltremarino del suo manto, con la porpora e lo zafferano delle ali dei cherubini! Il vizio e il peccato cattolico partorirono la struggente bellezza gotica, laddove la virtù e l’austerità calviniste rimasero prive di luce – a parte quella della candida calce –, spoglie di colore. Da una parte il linguaggio umile e colorato del peccato e della speranza di chi teme ma spera, dall’altra l’àlgida e superba consapevolezza della virtù di chi è convinto di essere predestinato alla salvezza.
Dio sa quale dei messaggi Gli è stato più gradito. Ma a noialtri, poveri cristiani con gli occhi pieni di quei colori, restano quei versi bellissimi di Fabrizio De André: «Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior».

di Franco Cardini