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Lampi sull'eternità

​È indubbio che – come scriveva il filosofo Bacone nei suoi Saggi – «gli uomini temono la morte come i bambini temono il buio». Tuttavia non si stancano, anche in questo contesto culturale piuttosto “terrenista” e superficiale, di affacciarsi oltre quella frontiera ultima, tentando di gettare uno sguardo oltre la pala del becchino o la porta blindata del crematorio. E le risposte – come già accadeva per la celebre pessimistica Epopea di Gilgamesh o con l’ottimistica visione immortalistica platonica – oscillano tra i due estremi che vorremmo definire con altrettante battute lapidarie. Da una parte, Schopenhauer nel suo capolavoro Il mondo come volontà e come rappresentazione (1819): «Desiderare l’immortalità è desiderare la perpetuazione in eterno di un grave errore». D’altro lato, Spinoza nella sua Etica dimostrata col metodo geometrico (1677): «Sentiamo e sappiamo di essere eterni».
Ora, il guardare oltre la tomba è strutturalmente insito al cristianesimo attraverso il messaggio pasquale, espresso significativamente nell’interpellanza rivolta dal messaggero divino alle donne nell’alba di Pasqua: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Luca 24,5). Da secoli la teologia cristiana ha adottato sia la categoria biblica della “risurrezione” sia quella apparentemente alternativa dell’“immortalità” classica greca. Gli articoli di questo numero della nostra rivista cercheranno di scavare, sia pure essenzialmente, nella sterminata complessità e articolazione di questo tema. Noi ci accontenteremo solo di una sorta di premessa interpretativa generale.
Tenendo conto di una secolare ricerca filosofica e teologica, la domanda di base che ci poniamo è questa: l’aldilà proposto dalla Bibbia e dalla Tradizione è un’immortalità o una risurrezione? S’intitolava proprio con questo interrogativo – Immortalità dell’anima o risurrezione dei corpi? – l’opera di uno dei maggiori teologi protestanti del Novecento, Oscar Cullmann (in Italia apparve nel 1970). Si trattava di un saggio essenziale che poneva appunto l’alternativa tra due oltrevita differenti, quello greco fondato sull’immortalità dell’anima e quello ebraico-cristiano che proclama nel Credo la risurrezione della carne. Bisogna, però, riconoscere che nella Tradizione cristiana ci fu sempre un’oscillazione tra queste due prospettive.
Già nel libro biblico della Sapienza, di matrice giudeo-ellenistica, ci imbattiamo in una continua celebrazione dell’“immortalità” delle “anime dei giusti”, secondo un indubbio influsso ideologico greco. Si legge, ad esempio, in 9,15: «Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri», ed è facile pensare al dualismo platonico psyché-sôma, “anima-corpo”. Lo stesso san Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (5,1.8-9); tuttavia subito dopo aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo», riportando così il discorso forse sulla risurrezione dei corpi.
Tuttavia nella religione ebraico-cristiana la stessa dottrina dell’immortalità – che largo spazio ha avuto nella speculazione patristica e medievale – è radicalmente differente da quella proposta dal pensiero greco. Per quest’ultima, infatti, l’incorruttibilità e quindi l’immortalità è una qualità metafisica “naturale”, ossia costitutiva dell’anima. Per la visione biblica, invece, è grazia e dono perché comporta la piena comunione con Dio, la partecipazione alla sua vita in un’intimità perfetta, tant’è vero che nel Vangelo di Giovanni “vita eterna” è sinonimo di “vita divina”, ed è per questo che essa è riservata solo alle “anime dei giusti”, come diceva il Libro della Sapienza.
Certo è che soprattutto con la Pasqua di Cristo, che depone un seme di eternità e divinità nella corporeità e nella temporalità, la risurrezione diventa la prospettiva che meglio esprime l’escatologia cristiana. Questa visione, tra l’altro, si àncora saldamente all’antropologia biblica che è unitaria: la persona umana non è frutto di una composizione tra corpo e anima ma è una totalità radicale unitaria di creaturalità e di trascendenza, di fragilità e di “immagine” divina. È quindi l’uomo integrale a essere redento, e come questo avvenga è naturalmente complesso da descrivere. Ci accontenteremo, allora, di una semplice considerazione.
Nella risurrezione la creazione intera, come diceva san Paolo, è “ri-creata”, cioè ricondotta a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”) nel quale cadono le coordinate limitative del tempo e dello spazio e quindi della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale. Lo stesso apostolo, nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi, fatica nel rappresentare questo nuovo statuto della realtà umana che suppone la libertà dalla prigione del tempo e dello spazio. Egli, infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, nesso di continuità ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile, risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico e risorge un corpo pneumatico» (15,42-44).
È significativo l’ultimo contrasto: il corpo psichico ha in sé un’anima e una sua interiorità ed è lo status presente e storico della persona; il corpo escatologico futuro è pneumatico, non nel senso dell’evanescenza della realtà corporea in una sorta di ectoplasma, bensì nel senso che il corpo risorto sarà in pienezza pervaso dallo Pneuma, cioè dallo Spirito divino operante nel Cristo risorto, principio della nostra trasfigurazione e comunione con l’eterno e l’infinito divino, perché «Dio sia tutto in tutti» (15,28).
A questo punto vorremmo approfondire ulteriormente in sede teologica questa visione più specificamente biblica, ossia l’escatologia della risurrezione. Infatti, come si è appena detto, i due modelli che hanno maggiormente dominato la cultura occidentale sono stati quello ebraico-cristiano della risurrezione, collegato a un’antropologia unitaria “psico-fisica”, e quello immortalistico greco, basato sulla trascendenza dell’anima rispetto alla materialità finita e caduca.
La filosofia e la teologia cristiana, pur riconoscendo la risurrezione della carne, hanno cercato di conservare anche la categoria “anima”, concepita come una realtà personale distinta, ma intimamente vincolata alla corporeità. È con questa unità che si configura la persona umana. Ora, nemmeno nella morte si cancella radicalmente questo nesso, ma si procede verso una sua trasformazione di difficile determinazione e descrizione. Aveva ragione un teologo del calibro di Karl Rahner quando osservava che «espressioni come “l’anima continua a vivere dopo la morte”, “dopo la sua separazione dal corpo”, e quelle che parlano della “risurrezione del corpo”, non indicano necessariamente realtà diverse, ma sono soltanto modelli di rappresentazione diversi per indicare la medesima cosa, e cioè la definitività della storia dell’uomo portata a termine».
In quell’orizzonte, il nesso anima-corpo è trasferito su un altro piano ove cadono le categorie del tempo e dello spazio e ci si inoltra nell’“aldilà” e nell’“oltrevita”, ossia nell’eternità e nell’infinito che trascendono le nostre categorie mentali vincolate spontaneamente al “prima” e al “poi”, al “qui” e “là”. Nell’aldiquà dominano, infatti, le scansioni successive temporali e spaziali.
È per questo che, seguendo il linguaggio spazio-temporale, la tradizione cristiana ha parlato dell’attuarsi, dopo la morte, di un giudizio “particolare” e personale, ove si vagliano le scelte morali della singola persona libera e responsabile. A esso segue in molti casi un “tempo” di purificazione ed espiazione (il “purgatorio”, spesso concepito anche come un “luogo”), per “poi” accedere al giudizio finale, quando tutta l’umanità e lo stesso creato entreranno nel nuovo ordine di cose (la “redenzione” o “salvezza”). Questa successione è però frutto del nostro computo temporale perché in realtà, oltre la vita terrena, c’è solo l’istante eterno e infinito in cui tutta la creazione è trasfigurata, giudicata, salvata o condannata. Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica ha preferito parlare di “stati” e non di luoghi e tempi, quando ha affrontato i cosiddetti “Novissimi”.
Questo grembo, che è l’eternità, ingloba e supera il tempo e lo spazio. Proprio per questo, l’eterno è presente già durante lo stesso corso della storia fatto di tappe successive e destinato a concludersi a causa della sua finitudine. Infatti, la persona umana, anima e corpo, nella visione cristiana ha in sé il seme dell’eternità (la “grazia” divina) già durante l’esistenza terrena; perciò inizia già ora a partecipare di quell’orizzonte trascendente, di quell’istante perfetto, di quel centro che tutto in sé assume e trasfigura.
Immortalità e risurrezione, allora, non si oppongono né si contraddicono ma esprimono su percorsi diversi la trascendenza a cui è destinata la persona umana (e san Paolo aggiunge: anche tutto l’essere cosmico). Una trascendenza che è un eterno e “puntuale” presente o istante perfetto in cui noi, legati al tempo, abbiamo l’impressione di entrare per gradi e per tappe. Fermiamoci qui, consapevoli di aver solo abbozzato qualche lineamento di un profilo complesso e arduo da descrivere, perché esige – come si è ripetuto più volte – il superamento delle categorie spazio-temporali che sono dominanti nel nostro pensiero.

di Gianfranco Ravasi