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Il tempo della giustizia

​Silvano Petrosino


È possibile riflettere sulla resurrezione senza ridurla immediatamente a un puro contenuto di fede? A partire da che cosa la riflessione sulla resurrezione non si trasforma in una semplice sublimazione di un soggetto angosciato dal pensiero della morte? È probabile che sia stata proprio questa la perplessità dei filosofi nell’agorà di Atene ascoltando Paolo: in effetti, quando si parla di questi temi è facile cadere nelle sublimazioni e nella superstizione. Dunque a partire da quale esperienza le parole di Paolo sulla resurrezione diventano ascoltabili e poi del tutto ragionevoli?
Il grandissimo biblista Paul Beauchamp osserva: «A partire dall’esilio si vede con tanta forza il trinomio formato dalla trascendenza del Dio unico, dalla generosità della sua giustizia che giustifica l’uomo, dalla sua potenza sui corpi. Quanto più lo sguardo dell’uomo riuscirà a tenere vicini questi tre termini, tanto più gli sarà dato di comprendere che nessuna affermazione dogmatica, fosse pure la divinità del Cristo o la resurrezione della carne, regge se rimane fuori dall’esigenza di giustizia. Questa è intrinseca alla verità (piuttosto che derivare da questa verità)» (P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento).
In effetti, non vi è alcuna possibilità di pensare con un minimo di rigore l’“altrove” della gloria e della resurrezione al di fuori del nesso o del logos che lo lega e lo destina al “qui” di un nuovo e diverso abitare. Il termine biblico che dà voce e consistenza al già-e-non-ancora di un simile presente è quello indicato da Beauchamp: giustizia. La traccia in cui quest’ultima s’inscrive è la stessa a cui allude la sorprendente affermazione di Isaia (5,15) secondo la quale «il Dio Santo si mostrerà santo nella giustizia». Eppure, non appena si dice “giustizia”, ecco che subito questo termine risuona come essenzialmente equivocabile, come un termine-tentazione, come la parola-trappola per eccellenza.
Da una parte, infatti, ci si chiede, e così anche si obietta, “ma che cos’è la giustizia?”, “che cosa significa essere giusti?”, “chi è il mio prossimo?”, “all’interno dell’ampia scena del mondo e delle sue molte ingiustizie che importanza potrà mai avere il mio personale esser giusto?”, per arrivare infine a ciò che viene percepito come l’evidenza stessa: “in realtà è impossibile essere giusti!” (ritorna con forza il realismo degli empi).
Dall’altra, si rischia insistentemente di acquietarsi in una concezione etico-moralistica o solo legalistica della stessa. Muovendosi lungo questa seconda strada, l’uomo tende a trasformare il richiamo alla giustizia e al diritto – che biblicamente devono essere intesi come il luogo per eccellenza dell’estrema esaltazione non idolatrica della creazione – in una sorta di idolo in forza del quale la salvezza viene identificata, ma così anche vanificata, con il semplice rispetto della norma giuridica. In questo modo la stessa giustizia e lo stesso diritto rischiano costantemente di “stortarsi” assumendo ancora una volta il volto di quell’“incenso”, di quei “sabati” e “assemblee sacre” definiti da Dio un «abominio» (Isaia, 1,13): si rispetta il diritto, ma si rimane sordi e ciechi alla dirittura del suo senso; la norma diventa il “tutto” e il “solo” della giustizia, e così la legge si trasforma in una forma di oppressione.
La figura di Cristo ci aiuta a uscire da una simile impasse. Egli è il compimento della giustizia; Egli è il primogenito dei risorti; il corpo glorioso è quello del Cristo risorto. Eppure, così come la “corruzione” della carne non attende certo l’istante della morte per cominciare a finire e per iniziare a dissolversi, come negare che questa sua resurrezione non ha certo atteso l’istante della resurrezione per cominciare a risorgere, poiché essa, in un certo senso e forse nel suo senso più rigoroso, aveva già iniziato a farlo all’interno del presente stesso del suo modo d’essere, del suo modo di nominare e dominare, o più, in generale ancora, all’interno del suo specifico modo di abitare la vita e di prendersi cura dell’esistenza intera? Ancora una volta, non è forse fino alla giustizia e gloria di questa “carne” che bisognerebbe saper leggere l’unico logos che lega la resurrezione alla creazione attraverso l’incarnazione?