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Il dolore che rende sacro lo spazio

di Guido Oldani

​Anche una ciotola per una minestra calda viene dalla madre terra, in una pastosità della natura. Mi sembra che tutto quel che è simbolicamente potente, venga dalla fertilità del sottosuolo: da un’argilla che sta sotto la pietra, da un sasso sottostante a una zolla. La catacomba, ipogeo della speranza, bolla sacra di spiritualità, è un seme che, innaffiato dalla forza della generosità estroversa, va a fiorire sopra il suolo, divenendo una cappella o una chiesa oppure ancora una cattedrale, estremo di bellezza e maestosità. Se penso ai sinottici, due sono i luoghi di culto che mi sembrano progettati e realizzati, in perfetto compimento. Il primo è quella certa stalla con mangiatoia a uso culla. Il secondo è la croce, ancor più abitabile di qualunque volume, messa orizzontalmente.
Amo l’idea di una chiesa che sia una croce galleggiante, che si possa avvicinare o allontanare dalla costa, a seconda delle liturgie dei marosi tempestati o della bonaccia. L’ingresso è dove un gigantesco chiodo ha torturato i piedi sovrapposti. Le due absidi laterali stanno dove le mani potevano solo stringere il ferro che le violava, senza aggrapparvisi, in un tremore delle dita da far risuonare i sibili del vento, che vi si biforca affrontandole. Il presbiterio poi ha il catino con la forma della fronte che non vi si poteva neppure appoggiare, così come l’occipite, perché circondati entrambi da una linea Maginot di spine nemiche, da umiliare i muscoli, il cuoio capelluto, i festoni di ciocche strappate e bagnate di acqua, sangue e sputi. Immagino che il mare sappia come fare a dare sollievo a una chiesa crocifissa su una croce che vi galleggi pesantemente.
Non so se tutto questo ci veicoli verso la bellezza, certo non si direziona verso il brutto e, di più, fa conflagrare la verità, il cui risplendere è sempre il primigenio indispensabile anello nella catena della pulcritudine. Se di bellezza si tratta, e non è certo improbabile, si appalesa difficile, e con il vigore dell’affaticato fiato grosso, redentivo. Temo che non vi sia alcuna bellezza che non sappia fare almeno qualche conto con la sofferenza, che è la capostipite della vita. Altre volte, avendo respirato più le fabbriche che non le crociere, le ho viste svuotate ma non private né del sudore che hanno evaporato, né delle schiene che hanno incurvato. Anche le carceri dismesse, come i manicomi criminali sfrattati, sono monumenti già benedetti dal dolore. E i deceduti ospedali, barelle della patologia del mondo? Faccio il poeta di mestiere e non l’architetto ma guai a separare queste due fatiche, e stati d’animo e ispirazioni, fra di loro. Esiste una creatività che parte dall’astratto, per estremizzare poi quella ispirazione in un guizzo di prodezze «che intreccia, in modo indissolubile, arte e vita per farsi stupore, orizzonte, respiro, alimento, ma anche dolore, il dolore che accompagna i momenti decisivi dell’umano, nascita e morte» (Giovanni Gazzaneo). Ci sono i vincoli liturgici, che però sanno aprirsi all’abbraccio del dolore accaduto o operante. Ciò che non si deve fare è dare una mano di calce per disinfettare la storia e creare un fondotinta adatto alla creatività. Quale bellezza? È necessario che non sia sterilizzata, come un latte pastorizzato o un muscolo strofinato da un cotone imbevuto d’alcol prima dell’iniezione. L’ossigeno più vero non è quello delle bombole ospedaliere ma quello che respiriamo, anche se non sempre pulitissimo, in mezzo al coro della vita.
Mi piacerebbe credere possibile che gli architetti sappiano far prorompere cattedrali da quelle preesistenti del dolore umano. Ho memoria della basilica di Loreto: una chiesa che contiene una casa. Nulla di simile sarebbe possibile, utilizzando le disabitazioni della sofferenza già edificate? Mi rendo conto che questo del dolore come laterizio di una architettura eventuale possa essere forse una particolarità di canone se non addirittura un salmone del procedere, nel suo andare controcorrente. Pure, proprio dove un albero è stato abbattuto ed è rimasto il ceppo, poi marcescente, la vita rinasce. Così la bellezza, specie quella del sacro, sta dappertutto: bisogna scavare con gli umilissimi occhiali della trapanatura tenace, allora può venire a galla, come se fosse uno sparo incredibilmente buono, uno spigolo fortuito di felice luce...