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Don Chisciotte, un cavaliere immortale perché umano

​Il grande enigma di quel mito donchisciottesco che ha interrogato intere generazioni, da quattrocento anni, è in grado ancora oggi, in modo sorprendente, non solo di affascinare, ma soprattutto di tracciare una visione del mondo inedita e rivelatrice per la nostra modernità. Un grande scrittore del calibro di Leonardo Sciascia, che a Cervantes aveva fatto spesso riferimento, scriveva: «Forse il libro continua ad essere, tra i grandi, uno dei meno letti. Ma ha una vitalità che va al di là delle pagine, che si è incorporata a un modo di essere, all’esistenza stessa in quel che ha di nobiltà, di poesia». Anzi, nel cercare le ragioni di questa illusoria convinzione di essere dentro Don Chisciotte che ha il lettore-non lettore, Sciascia spiega come la sua figura ci appartenga più come carattere della dimensione umana che come opera letteraria, vale a dire la natura mitica della costruzione romanzesca: «Tutti credono di sapere che cosa è quasi fosse stato letto in una vita anteriore o sognato; o come se continuamente venisse trasmesso per segnali, simboli, figure e situazioni: allo stesso modo che i proverbi e i mimi di una tradizione locale in cui ciascuno di noi ha radici».
Del resto proprio questa mimesi dell’appartenenza ancestrale all’uomo e alla sua natura può anche indicare la sua imperitura durata. Solo una decina d’anni fa, una giuria composta da un centinaio di scrittori di oltre cinquanta Paesi di tutto il mondo ha scelto il romanzo di Cervantes come “la migliore opera di fantasia del mondo”, di tutti i tempi, senza distinzione di generi letterari. Se il dato non spiega le ragioni, certamente indica che la scelta designa quanto, dal momento della sua apparizione, nel 1605, questo libro abbia potuto non solo restare vivo e dialogante con tante contemporaneità, ma abbia potuto anziché recedere nella sua possibilità di fruizione, avanzare  in modo crescente nel rapporto con i lettori, con gli spettatori dei molti adattamenti teatrali, con le questioni poste in atto dai critici e dagli scrittori.
La sua modernità consiste nel non dare risposte, nel lasciare la possibilità al lettore di confrontarsi con una verità che non è mai definita, ma interroga i molteplici aspetti dell’essere umano e della sua possibilità di mettersi in relazione con il mondo. Ognuno, nel romanzo, è in viaggio con i personaggi e può assumere su di sé la stessa ironia di cui li investe Cervantes: quella che potrebbe essere un’illusione ottica diventa una sorta di risveglio di quelle percezioni ancestrali che l’uomo si porta dentro e di cui parlava Sciascia, al punto che la lettura diventa non un semplice atto, ma una possibilità di restituzione della memoria occultata. Proprio lo scrittore spagnolo Javier Cercas, nell’indicare una nuova prospettiva per il romanzo contemporaneo, riporta alla lezione di Cervantes, primo e ancora incandescente esempio di una letteratura che non si arrende all’idea della storia come intrattenimento, ma situa il suo centro in quel “punto cieco” in cui la domanda ultima non riesce a dare risposta al lettore. Ma lascia la responsabilità di partecipare a questo enigma attraverso un’ironia che in Cervantes non risulta né beffarda, né cinica, ma diventa «uno strumento indispensabile di conoscenza, anzi quell’ironia non è il contrario della serietà, ma forse la sua massima espressione».

di Fulvio Panzeri