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Dalle macerie alla creatività. La vita risorge con l'arte

​Emilio Isgrò

In queste ore di solitudine obbligata – solitudine dell’arte, solitudine del mondo – è singolare che gli artisti non ne approfittino per porre una questione non meno seria della riapertura dei musei in piena pandemia. Una questione traducibile in una domanda: se sia lecito affidare la cura della malattia a coloro che la malattia l’hanno inseminata e fomentata. Non mi riferisco alla malattia generale del mondo. Penso alla malattia particolare dell’arte: che è quella di vivere ancora, dopo un secolo e mezzo di avanguardie, su una eredità ideologica che per strada ha perduto ogni mordente per trasformarsi in puro consumo. Dimenticando che è proprio su questo terreno che si apre uno spazio straordinario alla creatività italiana, se si considera che i nostri artisti (scrittori, registi, pittori) non sono meno bravi dei cuochi e degli stilisti che tanto hanno contribuito al consolidamento della nostra immagine nel mondo.
Se si riconosce che questa nella quale siamo immersi è una guerra, proprio noi italiani non possiamo dimenticare che sulle ceneri della Seconda guerra mondiale il nostro Paese, per fare un esempio, riconquistò la simpatia internazionale grazie a un cinema, come quello di De Sica o di Rossellini, capace di creare con pochi mezzi, e praticamente senza attori, o con attori “presi dalla strada”, un potente contraltare emotivo al ben più sfarzoso cinema hollywoodiano. Un secolo prima, d’altra parte, la stessa Italia ancora divisa era riuscita a inventare il melodramma di Rossini e di Verdi, perpetuando la lingua italiana nel mondo quando ormai nessuno all’estero più la parlava. Perché è sempre dalle ceneri che si rinasce, e questo gli italiani lo sanno per lunga esperienza. Gli italiani sanno che la loro grandezza è sempre la precarietà a costruirla, e per questo hanno bisogno degli artisti e dei poeti, specialisti dell’instabilità umana, non meno che dei filosofi. Pena la perdita di quella creatività estetica, che è parte integrante della creatività sociale e civile di un Paese. Oggi, forse, è opportuna la classica distinzione tra intellettuale e poeta, dove per poeta si intende non tanto il “fanciullino” pascoliano quanto quel tipo di intellettuale chiamato “artista” che quando la pura riflessione non basta, o porta al vuoto, se ne libera per cercare le risposte in quel sottofondo pascaliano del cuore che gli consente di rappresentare il mondo nella sua nudità più cruda.
Non voglio ridurre tutto l’universo a misura d’arte, come oggi pretende la retorica di chi parla di “bellezza” in astratto, ma solo ricordare che l’arte è un’attività maledettamente concreta, e là dove essa è priva di coraggio è la società nel suo insieme che perde colpi. Come dice Goethe nel Faust: «Troppo vecchio io sono per giocare soltanto, troppo giovane per non avere desiderio»; ed è chiaro che nessuno, oggi, può permettersi di giocare solo per giocare. È un momento decisivo di passaggio: purché, osservando i limiti degli altri – gli ultimi trent’anni dell’arte finanziarizzata sono stati ripetitivi e noiosi –, impariamo a riconoscere anche il nostro limite più vistoso, riassumibile in poche parole: timore del rischio, paura di conoscere il mondo. Il che è autolesionistico in un tempo in cui l’arte contemporanea (diventata un potentissimo strumento mediatico) contribuisce non poco all’immagine anche economica d’un paese non meno che l’economia in senso stretto. Per questo può essere pericoloso puntare tutte le carte sul nostro glorioso passato. Preserviamo pure gli Uffizi e il Colosseo. Ci mancherebbe. Ma senza dimenticare che fuori dell’uscio ci sono tanti giovani innovatori esposti all’indifferenza.
Non si tratta di professare un rifiuto fuori tempo del denaro, perché anche l’artista ne ha bisogno per realizzare le sue opere, spesso affidate a tecnologie molto costose. Ma quando il denaro diventa un’istanza ideologica, anzi dogmatica, è utile rammentare la disputa che Elio Vittorini ebbe con Palmiro Togliatti che lo invitava a ricalcare servilmente la linea politica del vecchio Partito comunista. Vittorini, con dignità, rispose che all’artista, al poeta, non si può chiedere di suonare il piffero per la rivoluzione. A maggior ragione, oggi non gli si può chiedere di suonare il piffero per la finanza.