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Cuore e carne, sedi della sapienza

​di Erri De Luca
La parte maggiore della mia esistenza appartiene al 1900. Le paure che ho imparato a governare sono quelle micidiali di quel secolo. Le nuove non attecchiscono nei nervi. Anche le esultanze e le commozioni si sono impresse allora. Mia madre mi ha inculcato il dovere di affrontare le paure, non lasciare loro spazio dentro di me. Bisognava “tenere coraggio”. Non sono arrivato a tenerlo, però ho perseguitato le paure fino a stordirle. Lei ammetteva terrori solo nei confronti delle forze di natura: tempeste, incendi, terremoti, eruzioni. Proibito temere esseri umani.
In un salmo di Davide (56) ho riconosciuto il suo punto fermo: «Cosa mi farà un essere di carne?». La prima parte del verso dice: «In Elohìm ho creduto, non avrò paura».
Come si arriva a non temere la specie umana, la più pericolosa verso se stessa?
La risposta di chi ha fede è ovvia: chi teme la divinità non può temere altro. Il massimo timore sovrasta e spazza via i minori. La risposta di mia madre stava nel temere l’immenso di natura, antidoto alle paure spicciole, interne ai rapporti umani. Aveva conosciuto anni di bombardamenti aerei, la peggiore forma di terrorismo e crimine contro l’umanità. Continua impunemente ancora oggi, ma è invenzione del 1900.
Paure, esultanze, commozioni, fatiche fanno percepire intensamente il corpo.
Ho esperienza del mio come di una sede. Ho l’impressione di abitare dentro un animale antico, sperimentato da migliaia e migliaia di anni, lungo una processione innumerevole di generazioni.
L’impianto del corpo è stato selezionato da sopravvivenze estreme, rendendolo un atleta adatto a ogni clima, esperto di ogni privazione.
Oggi lo si vezzeggia con gli sport, le piste, le palestre. Sono caricature delle sue capacità. L’ho messo sotto carico di lavori manuali, di estenuazioni fisiche insieme a molti compagni di sorte. «L’uomo è l’animale più robusto», scrive Varlan Šalamov dei suoi venti anni di lavori forzati in Siberia, nei Racconti della Kolimà.
Non ho la sua competenza, però gli credo. Credo questo: il corpo è un edificio antico e io sono uno dei suoi ultimi inquilini. Viene da una preistoria, io ne conosco solo le ultime vicende.
Questa dualità interna è ben conosciuta: anima e corpo. La mia notizia aggiunta è che non sono coetanei. I Greci collocavano la sapienza, l’espressione della personalità, nel cranio, nel cervello. Atena, dea dell’intelletto e del sapere, spunta fuori da un’emicrania di Zeus. Il monoteismo ebraico invece piazza la stessa facoltà in un altro posto. Salomone, il più famoso sapiente della storia sacra, riceve dalla divinità la sapienza del cuore. Ha chiesto la capacità di “un cuore che ascolta”. Riceve anche un cuore capace di risposta. Sono i due tempi del battito: sìstole e diàstole, ascolto e risposta. Prima di lui aveva ricevuto la sapienza di cuore Betzalèl, l’artista incaricato di eseguire le lavorazioni degli arredi sacri, durante i quarant’anni d’Israele negli accampamenti del deserto. Il cuore è sorgente di ispirazione, non solo di ragionamento. Non è solo un organo muscolare: è la stazione centrale della conoscenza. Irradia sangue e vita fino alle estremità dei capillari. Come sede della sapienza mi convince di più di quella greca.
Anche nell’esperienza ebraica si riconosce la dualità di anima e corpo. I loro nomi sono: cuore e carne. Il salmo 84, dei figli di Kòrah, così informa: «Il mio cuore e la mia carne esulteranno». Il rapporto con la divinità fa esultare all’unisono le due componenti della persona umana. In occasioni più terrestri, cuore e carne si precedono e si danno il cambio nelle percezioni. A volte si sente prima con il cuore, altre volte prima con la carne. Nell’intensità di dolore e di amore le due parti si stringono fino a confondersi.
Esultanze, paure, fatiche, commozioni: attraverso di esse ognuno di noi aggiunge la sua nota unica e irripetibile alla stesura della specie umana.