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Così la via pulchritudinis conduce al Mistero

​Camminavo per il traffico cittadino di una Monza affaccendata: una pesante porta di legno si aprì all’improvviso, ne uscì una donna. Raggiante. Entrai incuriosita e immediatamente i rumori della strada, il vociare della gente si spense in un silenzio denso di presenza. Nell’oscurità della navata, in alto, brillava una luce maestosa, dorata: il Santissimo Sacramento. Compresi immediatamente che cosa mancava ai nostri giorni convulsi, alle nostre notti rumorose: la bellezza di quello stupore. Lo stupore di una Presenza in cui la pace dilaga. Lo sguardo rimase impigliato a quella luce e compresi che non sarei mai più tornata indietro. Che la vita era là, che il segreto era là.

Non riuscirei a parlare di bellezza senza additarne la sorgente, senza raccontare come fu per me l’incontro. Come scriveva Hans Urs von Balthasar, «non è la bellezza ad averci abbandonato, siamo noi che non siamo più in grado di vederla». E questo perché «i concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce». Lo affermava già san Gregorio di Nissa, ma noi – oggi – ne facciamo drammaticamente esperienza. Lo stupore è scomparso dall’orizzonte quotidiano. Charles Péguy direbbe che abbiamo uno sguardo abituato. La ridda dei concetti è tale, che la Presenza di Cristo, nascosta tra le pieghe del quotidiano, ci è indifferente e ignota. Stando ore davanti al Santissimo ho visto il mio sguardo mutarsi, cambiare, rinnovarsi dentro la sorgente stessa della bellezza qual è appunto la presenza luminosa del Bellissimo nell’ostia santa. La beata Maria Maddalena dell’Incarnazione, citando il Prefazio del Natale, affermava che mediante lo sguardo alle cose visibili siamo rapiti alla bellezza dell’Invisibile. Così, nel silenzio del chiostro, cullate dal canto monastico, strette nella vita comune, avvolte dalla letizia di un lavoro che plasma il mondo, con lo sguardo teso verso i miracoli quotidiani si percorre in Monastero la via umile della bellezza.

Von Balthasar ancora mi sorprende per come esprime non ciò che siamo ma, come direbbe sant’Agostino, ciò che desideriamo vivere: «La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto […]. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione […]. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare».
Sì, la via pulchritudinis è una pedagoga che conduce al Mistero. Non possiamo rassegnarci di vedere il mondo abbandonato alla cupidità e alla tristezza. Si vorrebbe uscire e gridare per le strade e per le piazze, non come femen impazzite, ma come le grandi sante della storia della Chiesa, come Ildegarda di Bingen, come Giovanna d’Arco, come Caterina da Siena: l’amore non è amato! Non ci si può fermare davanti al dilagare della cultura di morte, dobbiamo scuotere l’umanità almeno con lo stesso struggimento dell’ebreo Chagall, che con la sua arte desiderava «gettare quel guanto a sette dita in faccia al secolo, sperando di colpirlo nel vivo delle sue nostalgie, di provocarlo a tornare ai misteri». Che l’uomo possa tornare ai misteri! E poiché l’unico grido capace di attraversare le coscienze è la preghiera, è necessario costruire luoghi di contemplazione e di bellezza. Riedificare la Rocca – come direbbe Eliot – straniera in questo mondo ma cittadina nell’Altro, entro la quale si possa rieducare lo sguardo alla luce delle cose eterne.

Chiudo un’altra pesante porta di legno, è quella del nostro coro. Ho lasciato la luce del Santissimo e l’oscurità degli stalli. Ritorno alle mie occupazioni quotidiane e mi sorprende un libro aperto: la Maestà di Duccio troneggia accanto all’Urlo di Munch. Qui il grido dell’uomo solo, là una presenza certa che accompagna la vita. Chi li farà incontrare? Chi permetterà all’uomo di Munch di incontrare lo sguardo della Vergine senese? Ecco la sfida che ci pone la Bellezza: diventare ponti tra il grido della disperazione e il silenzio pacificato della beltà.

di Maria Gloria Riva