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Architettura ed emozione

Scriveva Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano: «Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre. […] Ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di passato, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo quasi verso un più lungo avvenire. Significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti».
Pensare alla riqualificazione del territorio italiano malamente e disordinatamente urbanizzato negli ultimi sei decenni può sembrare un’utopia. Eppure è necessario indagare sulle cause di tanto degrado, di così poca lungimiranza, del vuoto progettuale a fronte di investimenti importanti, pari a quelli di altre nazioni europee che hanno saputo rigenerare e rinnovare città come Barcellona, Bilbao, Berlino, Helsinki, Madrid, Valencia.

A partire dalla mia esperienza di architetto, penso che la causa del disinteresse diffuso nei confronti dell’ambiente sia la mancata partecipazione della comunità civile alle scelte progettuali e alla loro attuazione. Gli italiani, trascinati nella rivoluzione industriale a imitazione di modelli inadeguati alla propria storia e alla geografia del Paese, hanno perso quella cultura “lenta”, fatta di piccoli gesti misurati sui grandi cicli della natura, che caratterizzava la grande e plurimillenaria civiltà rurale. Il nostro non vuole essere uno sguardo nostalgico, ma una cosa è certa: coltivare la natura significa ricreare corpo e spirito. L’architettura del Movimento Moderno – rivolta soprattutto alla soluzione della questione abitativa legata al mito progressivo della mobilità su gomma – ha portato alla semplificazione di quelle forme urbane complesse caratteristiche della città mediterranea, cresciuta attraverso le azioni e i comportamenti spontanei dei suoi abitanti, laddove luoghi e paesaggi parlavano di quanto incessantemente conosciuto, registrato e stratificato attraverso la condivisione e l’interazione con identità altre.
 
L’Italia è un Paese geograficamente complesso e disomogeneo: terra d’arte dove i colori, i profumi, la musica, le tradizioni, l’artigianato, i prodotti tipici, la cucina, cambiano a ogni trasformazione orografica. Le nuove grandi infrastrutture devono tener conto di questo e i progetti urbanistici vanno condivisi con le persone che abitano il territorio, che è il punto d’incontro tra l’ambiente e i comportamenti umani. Abitare significa coltivare relazioni. La qualità dell’abitare e della vita è strettamente connessa alla qualità del territorio circostante, la cui tutela è attuabile solo mediante una partecipazione di intenti e un uso appropriato del suolo. Costruire e trasformare il territorio sono necessità di condivisione, rompere questo patto significa perdere di vista la cura dell’ambiente. «Stare assieme genera forma» ci ha insegnato Leon Battista Alberti. Le nostre città, le nostre periferie e il territorio circostante sono luoghi in frenetica trasformazione. Gli interessi finanziari li trasformano in improbabili sperimentazioni di crescita e contemporaneamente li abbandonano a se stessi. Credo che solo la cultura possa creare elementi di civilizzazione e guidare la progettualità in una natura fortemente antropizzata, e dare speranza a contesti degradati.
È al valore del suolo che si deve rivolgere la nostra attenzione. Non è rigenerando volumi esausti, che hanno già prodotto ricchezza e occupazione, che faremo ripartire un’economia viziata dalla speculazione, ma con la riqualificazione ambientale, anche con la demolizione del superfluo. Non è attraverso la conservazione a ogni costo e i falsi mimetismi che si favorisce l’amore per la natura e la consapevolezza della necessità di un ambiente sano, bensì attraverso l’uso di forme e materiali innovativi, adatti ai nostri tempi e fortemente compatibili con un uso corretto ed ecosostenibile del territorio. Negli interventi di recupero del patrimonio esistente e nella realizzazione di nuove costruzioni il principio guida deve essere quello “caso per caso”: ogni sostanziale decisione e giudizio deriva dallo studio di tutti gli aspetti che riguardano il sito e l’intervento costruttivo. Occorre un diverso concetto di edilizia fortemente legato all’architettura come storia, conoscenza e progettualità. Tutti i tentativi di trasformare l’architettura in una serie di regole normative del gusto del costruire hanno soprattutto portato alla rinuncia da parte dei progettisti all’impegno culturale e artistico, allontanandoli dalla problematicità del fare architettonico, che implica la responsabilità di scelte inevitabilmente di carattere soggettivo e individuale.
Governare il territorio in modo colto e coinvolgente significa semplificare le norme scritte, allargare il dibattito, intervenire in modo diretto nei progetti, aumentare il controllo sul risultato finale, incentivare gli interventi sostenibili, esemplificare quelli compatibili mediante un lavoro di ricerca e sperimentazione, promuovere azioni improntate all’ecologia. Riproporre l’emozione come elemento di giudizio.
 
di Edoardo Milesi
 
 
Le zolle del nostro destino
 
O mia terra sì bella e perduta…
“Terra, terra, terra!” gridava la vedetta della caravella su cui trionfava Cristoforo Colombo. “Terra, terra, terra!” esclamava forsennato il maestro di Vigevano mentre, con creatività didattica, guardava in un rotolo di carta a mo’ di cannocchiale verso la finestra ricca di continenti da scoprire. Avrebbero potuto urlare “Alberi, alberi!”, che era poi ciò che si presentava allo sguardo speranzoso della vedetta. Niente da fare. L’esclamazione era come se quella apparizione fosse priva di erbe, cespugli e variegate essenze altissime e verdeggianti. Come se fosse invece una piattaforma per la ricerca del petrolio, oppure una terragna zattera spropositata. Noi sappiamo riconoscere la terra soprattutto, prima del fuoco, dell’acqua e dell’aria. E sì che non possiamo, la terra, né mangiarla né berla, ma affrontare la sua generosità attraverso la moneta del sudore, il cui surrogato ignobile è dato dalla ricchezza.
Io la terra non ce l’ho, calpesto gradini e piastrelle per avvicinarmi alle finestre dalle quali vedo altre finestre che racchiudono piastrelle e gradini. In compenso le mie passeggiate avvengono, in stazione, su e giù lungo il marciapiede ferroviario. Su un davanzale vedo un vaso di geranio. Invidio quel fiore un po’ sgarbato, perché lui la terra ce l’ha, io no. Ancora nessun movimento politico difende i vegetali che la terra dà, anzi ne viene molto consigliato lo sbranamento. Ovunque gli ottusi sistemi tribunalizi-carcerari infliggono al carcerato di subire la dittatura sterminante del cemento. Se vado in campagna, qui vicino, al limitare della metropoli, calzo comunque delle scarpe che dalla terra mi separano. Amata e temuta terra. So che un giorno non me la potranno negare e io ci entrerò avvolto nel mio cappotto di legno. Anche se mi ardessero, alla fine mi restituirebbero a lei, sorella terra. Ricordo anni addietro, quando partecipavo a seminari di psicodiagnostica. Somministravamo ai pazienti le famose tavole di Rorschach: ognuno deve interpretare le macchie simmetriche che vi compaiono. Di solito si intravedono vegetazioni, animali, magari mostri. Ho bene in mente una signora centenaria: in tutte le dieci tavole, in bianco e nero o a colori, lei vi leggeva sempre e solo la terra. Dieci volte soltanto la terra. Era come dire che quando ci avviciniamo al compimento del nostro destino, non c’è primavera né estate che tengano con i loro frutti e le loro fronde, con i loro laghi e i loro mari. Tutto diventa oramai, semplicemente, nostra sorella terra. Essa è un termine di saggezza, è un libro in cui leggere tutto ciò che ci riguarda, in alternativa naturale alla cartomante o alle linee della mano. Essa sa tutto e ce lo può mormorare pian piano nel tempo.
Vivo nella regione lombarda, dove la rete irrigua è composta da infiniti fossi, rogge, canali, navigli e fiumi tutti coronati di nebbia. Salvo questi ultimi, tutto venne scavato a mano, terra che è già un cibo, cibo che diventa ospitalità. Questo sistema idraulico che solca la pianura è nascostamente più importante delle piramidi d’Egitto, più generoso ed eterno. Da noi la terra fumante arata dai cavalli altrettanto fumanti, con il suo colore scuro e grasso, sembrava preannunciare la generosità del raccolto. È questo suolo il più fertile del mondo, diceva l’agronomo Haussmann. Ora che la gente dei cinque continenti si accatasta a vivere nelle metropoli, a volte sogno di essere un vomere dalle lame lucidissime che fanno brillare la luce del sole, la quale, riflessa, diventa il chiarore del futuro.
 
di Guido Oldani