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Appennino, tra fragilità e ritorno alla vita

Se consideriamo il Po come limite settentrionale, ed escludendo il Salento a meridione, l’Italia è una dorsale di montagne protese su un piccolo mare. Se avete la fortuna di viverci e siete abitanti delle città, del piano, delle coste, prendetevi un giorno di libertà fuori stagione: non luglio/agosto, non un fine settimana di bel tempo né durante le festività, ma un giorno qualunque meteorologicamente variabile, e risalite le montagne che comunque delimitano, incombenti o all’orizzonte, il vostro territorio.
Un tragitto di tangenziali, svincoli, rotonde, raccordi, attraverso una campagna industrializzata con vistosi inserimenti di globalizzazione, poi le strade pedemontane che risucchiano, calamitando in basso e allineando ai bordi, le attività commerciali e produttive delle terre alte. Quando si comincia a salire e i rettilinei lasciano spazio ai tornanti... rivela l’Appennino nel cielo l’ombra di una esistenza più antica... è come oltrepassare una frontiera a cui segue lo spopolamento, la disintegrazione del tessuto geologico, sociale, umano.
L’abbandono delle attività agricole, pastorali e boschive sta riconsegnando la montagna al selvatico. L’erba che non bastava mai, non se ne sciupava uno stelo e si faceva ricorso alle foglie per scampare l’inverno con gli animali domestici, cresce rigogliosa e incontenibile, invade i paesi, è diventata un rifiuto da smaltire. La boscaglia sgretola e ricopre il lavorio delle generazioni nei secoli ma lo sguardo inconsapevole coglie l’incanto di una natura incontaminata. Il mio Appennino è un luogo di struggente bellezza in cui una esigua minoranza di umanità non riducibile a dimora urbana si nutre di piccoli eroismi quotidiani fronteggiando il fallimento, la scomparsa, l’oblio. Il mio Appennino frana, irrimediabilmente, frana il terreno a ricomporre un paesaggio mutevole, si sgretola il corpo antico della civiltà della cristianità d’occidente svezzata tra monasteri ed eremi, borghi e castelli in cui si è tramandato, ruminandolo, ciò che restava dell’antecedente ed è stato imbastito quel futuro che è il nostro passato. Un orizzonte redento dall’Incarnazione: passione morte resurrezione ascensione, “nell’attesa della Tua venuta”. Un tempo incombente, poi imminente, poi diluito, poi si è perso il conto.
Cittadino è diventato sinonimo di uomo libero, depositario di diritti inalienabili, proteso a una realizzazione disincarnata e massificata – produttore consumatore utente – in uno spazio tecnologico in cui la connessione riduce il tempo a una perenne consecuzione di immediatezza, sradicato da ogni contesto storico e geografico. A sé. Risalire l’Appennino in un giorno feriale concede la percezione del collasso di una civiltà, abitarlo permette di affinare lo sguardo sul “non invano” di ciò che ci ha preceduto.
Non vorrei essere che qui, in questa incerta ora. Un contesto economicamente fallimentare, politicamente insignificante, socialmente perdente, eppure qui riluce la vita nella sua essenzialità, nel suo mistero.
Sono tornato a vivere sull’Appennino trent’anni fa, l’unica dimensione sociale erano i funerali ma l’abbondanza di morti ha permesso alla mia comunità di sopravvivere. È bastato che una giovane famiglia invece di far seguire al matrimonio il trasferimento verso prospettive più agevoli e promettenti decidesse di restare e il paese è rinato con i primi due bimbi. Poi un’altra famiglia e altri due bimbi, e un altro. Ora abbiamo un circolo sociale che gestisce il bar, una bottega di alimentari, l’ambulatorio medico, una cooperativa di servizi, una fondazione culturale, e sono ricominciate le feste. L’ultima bimba nata, in una famiglia in cui convivono una madre, una nonna, una bisnonna, sta cominciando a camminare sotto gli sguardi amorevoli di una piccola comunità di sessanta anime. Spesso la mattina è al bar e tutti entrando la salutano, le rendono omaggio. Lei sorride, tiene il broncio, fa le smorfie, borbotta e smozzica parole e nomi. Ci allarga il cuore: è l’immagine della vita, vittoriosa fino alla fine dei tempi.

di Giovanni Lindo Ferretti