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A Betlee, con gli occhi della Vergine

​Marina Corradi
Mentre scendeva la notte sulle colline di Betlemme, lei sapeva che era quasi giunta l’ora. Il ventre ormai così pesante, le gambe che non reggevano più le dicevano: fermati, trova un riparo. E il buio vasto attorno, e poche case, chiuse e inospitali. Una locanda, finalmente: ma era gremita, e ne giungevano voci alte, e lazzi di ubriachi.
Trovarono una stalla. E solo le bestie, le mucche e i somari, con i loro miti occhi inermi, si scostarono per far posto ai due nuovi venuti. In quell’ora, alla luce tremante di una lanterna, Maria, lontana da casa, sola con Giuseppe, non ripensò forse ai nove mesi, alla attesa iniziata con il misterioso annuncio di uno sconosciuto visitatore? Tutto era stato fin dall’inizio straordinario, e inaudito. Perfino quel “sì”– pronunciato con un filo di fiato. Cosa era accaduto allora, quale miracolo era scoccato nella sua carne? Per un istante Dio e l’umanità insieme, in lei, avevano generato.
Poi, lunghi mesi apparentemente uguali a quelli di ogni altra madre. Maria, però, sapeva che quel figlio era un Altro. Nella quiete della casa di Nazareth, in primavera, mentre filava, in lei prendevano forma gli occhi, le mani di Gesù. Le mani che avrebbero guarito i moribondi, gli occhi di cui gli uomini non si sarebbero più dimenticati. Maria andava a prendere l’acqua al pozzo, nella calura estiva. La sua ombra si stagliava netta contro la terra arida della Galilea. Dentro quell’ombra cresceva Cristo bambino. Come fu il primo movimento, quel primo frullio d’ali che ogni madre riconosce in sé – e allora sussulta, e istintivamente porta una mano sul ventre, in una prima carezza? Nessuno ancora lo conosceva. Solo il figlio nel seno di Elisabetta sussulta quando arriva Maria. Solo un nascituro riconosce il figlio di Dio, che matura in una donna. In quella notte di Betlemme Maria ripensava dunque ai suoi mesi di attesa e segreto. Che volto, che occhi avrebbe avuto il figlio di un Padre infinito? E ora le spinte delle doglie dicevano che davvero era giunta l’ora. Dalle bestie nella stalla l’unico calore; lo scalpiccio degli zoccoli nel letame, la terra nera e scabra che attende, umile, il suo Salvatore. Come fu, il pianto acuto che tagliò il Tempo?
Forse sembrò uguale a quello di ogni bambino che viene al mondo. Come ogni neonato Gesù si quietò fra le braccia di sua madre, nell’odore della sua pelle, nel conosciuto eco del battito del suo cuore. L’umanità accolse Dio nell’abbraccio di una giovanissima donna. Simile all’apparenza a milioni e milioni di madri, prima e dopo di lei: che ogni giorno partoriscono, e poi, ancora sudate dal grande sforzo, sfinite, incredule abbracciano un figlio, che nove mesi prima non c’era. (Lo sguardo di Maria sul suo bambino, ancora più sbalordito: tu, da dove vieni, e chi sei? Riconoscendo eppure, nei suoi lineamenti, qualcosa anche di sé).
In cosa ci riguarda ancora questo remoto parto, nel buio delle colline della Palestina, mentre da lontano, da quella locanda, giungevano, sguaiate, grida alticce, e note grevi di canzoni popolari? (L’umanità, fin dal primo istante, distratta).
Scrisse la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt: «Se lasciate a se stesse, le faccende umane possono solo seguire la legge della mortalità, che è la più certa e implacabile legge di una vita spesa tra la nascita e la morte. […] Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione, se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare». Per questo quel vagito a Betlemme ci riguarda, e anzi è la radice di ogni speranza. Perché, lasciati a noi stessi, noi potremmo solo seguire la legge della carne, che decade e muore. Senza Cristo, nasceremmo solo per morire.
È invece quel suo nascere, quell’irrompere nel mondo, accompagnato dallo splendore di una stella – l’universo che si inchina al suo Creatore – che ci permette di dire: non moriremo per sempre. Noi, e quelli che amiamo. Vivremo, in Dio. Ci ritroveremo. E non è forse questa la sola promessa che ci salva dalla disperazione? Ancora Hannah Arendt: «È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».