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185 editoriale

La speranza è la grande bellezza. Quella bellezza che il Rinascimento ha saputo generare in un momento storico ben lontano dall’età dell’oro, appannaggio solo dei miti.
Pensiamo all’Italia di cinquecento anni fa: divisa in piccoli Stati, dilaniata da interessi e fazioni, travagliata da una profonda crisi spirituale e morale, prima ancora che economica e politica. Non solo. Anche allora chi contava di più Oltralpe faceva sentire il peso della sua potenza. Così la Penisola diventa oggetto di desiderio. Carlo VIII, re di Francia, apre nel 1494 le campagne militari in cui le potenze europee faranno dell’Italia terra di battaglia e di conquista per oltre sessant’anni. La fine del Quattrocento è poi segnata dalla scomparsa di alcuni dei grandi protagonisti che avevano fatto di Firenze la nuova Atene. Nel 1492 muore Lorenzo de’ Medici, il Magnifico: gli succede il figlio maggiore Piero, che passerà alla storia come “il fatuo”. Pico della Mirandola e Poliziano moriranno due anni dopo. Sembra la fine di un mondo. Non è così: questo è il tempo in cui il Rinascimento raggiunge la sua maturità.
 
La stagione più straordinaria delle arti nasce dalla libertà e dal coraggio di chi non si lascia schiacciare dalle angustie di un difficile presente e sa guardare oltre, nel segno della speranza cristiana e di quella domanda di vero, di bene e di bello che l’uomo porta in sé. Solo in questa prospettiva possiamo comprendere come i pontefici Giulio II, a cui si deve l’ideazione della nuova basilica di San Pietro, e Leone X proseguano l’opera dei predecessori e sostengano Bramante, Michelangelo e Raffaello. Committenze e mecenatismo scelgono i più grandi pittori, scultori e architetti dell’epoca. Fanno di Roma il centro artistico e culturale del mondo e ci consegnano i grandi capolavori della storia, dalla Cappella Sistina alle Stanze di Raffaello, dove la fede si esprime nel segno di una bellezza che non conosce pari.
Sempre in questo orizzonte possiamo cogliere la portata dell’impresa di Pietro Bembo, patrizio veneziano, letterato per vocazione, collezionista di opere dei maestri rinascimentali, di cui è sostenitore e amico. Segretario di Leone X, cardinale con Paolo III, capisce che solo una svolta culturale può offrire il riscatto per le genti d’Italia. E questa svolta è la lingua scritta, che codifica dettandone le regole nelle Prose della volgar lingua (1525). Così gli italiani nascono, ben prima che nel segno dei Savoia, nel segno della grammatica. Va oltre: con l’editore Aldo Manuzio inventa nel 1501 il libro “tascabile”. A differenza dei grandi volumi che si leggevano ad alta voce nelle aule universitarie, il nuovo formato, per la prima volta in carattere corsivo, è così piccolo da poter stare in una mano e la lettura diventa un fatto personale. Ed è solo un esempio di quell’insieme di idee, invenzioni e scoperte che hanno traghettato l’umanità dal Medioevo all’Età moderna.
La manualistica purtroppo ha sottolineato e sottolinea fino alla banalizzazione concetti come «l’uomo centro del cosmo e protagonista della storia», «la riscoperta filologica e il ritorno ai canoni della classicità», offrendo come chiave interpretativa l’affrancamento da Dio, il non concepirsi creatura, il rifiuto del Medioevo liquidato come età oscura. Quando, nella Santissima Trinità (1425), Masaccio dipinge i committenti per la prima volta non in scala ridotta, come era sempre avvenuto, ma delle stesse dimensioni di Maria e Giovanni ai piedi della croce non intende desacralizzare, ma piuttosto sottolineare il nostro essere realmente figli di Dio. Così la gloria e la potenza del corpo plasmato da Michelangelo, se nelle forme è una rilettura della bellezza classica, nello spirito trova la sua unica sorgente nel Dio che si fa uomo e alla carne dona una vita nuova.
L’orizzonte della Renaissance non è dunque un cielo vuoto, come affermava Jean-Baptiste d’Alembert nel suo riduzionismo illuminista: è un cielo carico di mistero divino che non schiaccia ma eleva. L’uomo continua a concepirsi come creatura, in rapporto con il suo Creatore, ma prende coscienza della sua libertà e dignità, a partire dal proprio corpo, il cui destino è la resurrezione. E l’Età moderna, che trova nel Rinascimento la sua origine, ci riguarda appieno. Infatti non siamo riusciti a staccarcene se non anteponendo un poco significativo “post”.
 
Così parte del secolo scorso e i nostri giorni vengono definiti da un termine che nulla definisce: “postmodernità”.
Per questa ragione la bellezza a cui danno espressione gli artisti rinascimentali la guardiamo con stupore e nostalgia, la sentiamo così vicina. Se da un lato si richiama alla perfezione impossibile dei Greci, dall’altra attinge al Signore della vita, rinnovando i canoni della tradizione medioevale, ma sempre nel duplice segno dell’Ecce Homo e del Risorto, dell’unica bellezza che abbraccia tutto l’uomo e Colui che dell’uomo si è fatto figlio. Sentiamo ancora nostra questa grande bellezza perché a differenza del mondo classico non esclude il limite e la sofferenza, ma li illumina con l’Incarnazione. In fondo quel che diceva san Pier Giuliano Eymard per la preghiera vale anche per le arti: sono «la scala di Giacobbe che unisce il cielo alla terra».
 
di Giovanni Gazzaneo​