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182 EDITORIALE

​Si dice che sant’Agostino sostenesse che, se Iddio avesse voluto che si portassero vesti azzurre, avrebbe fatto nascere pecore azzurre. In questa dichiarazione, probabilmente apocrifa, sta una presa di coscienza estremamente importante dell’antichità: ci si vesta con umiltà e con il color chiaro della pecora, e poiché la pecora nera – come si sa – è più rara, il nero sia riservato a una veste aristocratica. Le noir, c’est chic. Ma ben di più è il nero: è utilmente omologante. La nobiltà emancipata si può permettere il lusso della policromia perché ne domina le tonalità e le variazioni. Non per nulla Luigi XIV si addobba con parrucca folgorante e con cromatismi da caramella che si concludono con le scarpe rosse. La medesima ricchezza delle vesti, lo stesso gusto per il combinato di sete e velluti lo si ritrova nei grandi ritratti coevi dei puritani d’Olanda. Solo che per costoro tutta questa ricchezza va declinata in un tono unico, il nero. Ed è un po’ come se questi anticipatori avessero già avanzato la tesi di Ford, il monarca di Detroit, che sosteneva per la sua automobile democratica, la famosa Modello T1, che ogni colore fosse concesso purché nero! L’automobile finché era lusso era coloratissima, mentre quando divenne popolare e democratica si adeguò come le vesti dei puritani.

A dire il vero, ogni volta che viene necessario l’accettare in società una classe trasversale nuova, e come tale in necessità di omologazione, la si veste di nero. Ben lo capirono i giacobini con i loro pastrani neri, e ben lo fece capire il Bonaparte, il quale appena divenuto imperatore mise per reazione tutti i suoi compagni in verde e oro, la divisa ancor oggi portata dagli Accademici di Francia. Ed è ancora il nero che ricompare nella borghesia maschile assurta al potere, quando si metterà la redingote esaltata da Balzac nel suo trattatello Dell’eleganza, come sarà nera la successiva borghesia maschile britannica e anni dopo il dinner jacket, che rende presentabile anche un magnate proveniente dal profondo del Midwest degli Stati Uniti.
Edoardo VIII, l’elegantissimo re d’Inghilterra che abbandonò la corona per sposare la divorziata Wallis Simpson, lasciò in compenso un suo guardaroba coloratissimo, con completi a scacchi arancione su fondo giallo, che ha stupito il mondo intero quando è stato recentemente disperso all’asta. La sua regale policromia contrasta amabilmente con le monocromie grigie che la moda italiana ha imposto negli anni Ottanta del secolo scorso a una serie di classi nuove, dal Giappone ai meandri newyorkesi, rendendole tollerabili ed evitando loro il rischio delle combinazioni di colore che avrebbero reso caotica la loro vita applicata più alla ricerca del profitto che del gusto. In fondo anche il papato aveva seguito linee analoghe quando dal rosso fiammante della tonaca imperiale d’Oriente, decise di passare al bianco candore.

Arthur Rimbaud, essendo poeta decadentista, attribuiva valori ben diversi ai colori quando pubblicò, nel 1883, il sonetto Voyelles, dove a ogni vocale corrispondeva una visione cromatica puramente simbolista. Poiché, nel fondo dell’anima, ognuno la vede come vuole o meglio ancora come lo inducono a vedere le sue tradizioni antropologiche, quelle che portano noi oggi a usare l’alto formalismo del nero per la celebrazione pubblica del lutto, mentre per le stesse circostanze in Corea ci si veste di bianco.

di Philippe Daverio